lunedì 19 ottobre 2009

3° CONGRESSO REGIONALE

Domenica 8 novembre -ore 9.00 Auditorium Hotel Federico II Jesi si svolgerà il 3° congresso regionale del Movimento Repubblicani Europei delle Marche.
Il Congresso avrà il seguente tema

Priorità strategiche per l'economia marchigiana nel sistema internazionale.

Le conclusioni dei lavori congressuali saranno svolte dalla sen. Luciana Sbarbati segretaria nazionale MRE.

martedì 11 agosto 2009

DESTRA? NO GRAZIE

Il voto popolare del 6 e 7 giugno per l’elezione del nuovo Consiglio Comunale e del Sindaco, ha dato un risultato netto: la vittoria della lista di centro sinistra “Montemarciano Democrazia e Solidarietà” e la fine della grande illusione della destra di conquistare la guida del nostro Comune. L’impegno profuso dalla destra per il raggiungimento dell’ agognato obbiettivo è stato notevole e la sua aggressiva e demagogica campagna elettorale ne è stata la naturale conseguenza. I cittadini di Montemarciano però non hanno creduto alle facili promesse degli “appoggi da Roma” o dei “canali preferenziali” e hanno saputo valorizzare con il loro voto una idea più strutturata del concetto di democrazia. Sicuramente il successo del centro sinistra sarebbe stato più netto se all’interno del maggior partito della coalizione non fossero accaduti avvenimenti politici che per la loro rilevanza e per le loro conseguenze hanno generato confusione e sconcerto tra i cittadini e tensioni all’interno della stessa coalizione. Si è infatti corso il rischio, da noi sempre evidenziato, di consegnare su un piatto d’argento l’amministrazione di Montemarciano alla destra, ripetendo così a livello locale l’errore commesso per le elezioni politiche nazionali dove abbiamo assistito, per nostri errori e non per meriti degli avversari, al successo dell’antipolitica, del qualunquismo, dell’autoritarismo strisciante e di una politica davvero di basso livello. Per quanto ci riguarda noi Repubblicani Europei siamo sicuramente soddisfatti del risultato conseguito: con l’elezione dell’amico D’Alessandro abbiamo riconfermato la nostra presenza in Consiglio Comunale e con la sua nomina a Presidente del Consiglio Comunale abbiamo ottenuto un riconoscimento politico dell’attività svolta in tutti questi anni a favore della nostra comunità. Alcuni ritenevano e forse speravano che a causa della radicalizzazione dello scontro politico ( che sempre danneggia i partiti più piccoli) non saremmo stati in grado di raggiungere questo buon risultato e dunque siamo ancora più fieri di averli delusi anche perché dobbiamo ringraziare esclusivamente il nostro impegno, la nostra passione , i nostri elettori e non gli “sponsor” detentori di preferenze che tanto ruolo hanno giocato. Per far valere la voce di chi non vuole essere costretto a scegliere per necessità continueremo nel nostro impegno politico e sociale a favore di Montemarciano chiedendo ai cittadini di sostenere sempre di più il nostro movimento. Infatti a Montemarciano i cittadini hanno decretato la vittoria del centro sinistra ma secondo noi è stato un consenso sulla fiducia perché in questi anni saranno giudici severi che non dovremo in alcun modo deludere.
MOVIMENTO REPUBBLICANI EUROPEI
Sez. “Ugo La Malfa”- Via G.LEOPARDI, 9
www.repubblicanieuropei-montemarciano.it

domenica 5 luglio 2009

ELEZIONI COMUNALI DI MONTEMARCIANO

La lista di centrosinistra" Montemarciano Democrazia e Solidarietà " ha vinto le elezioni per l'elezione del Consiglio Comunale e del Sindaco. E' stata eletta Sindaco la dott.ssa Liana Serrani esponente del P D. Per il Movimento Repubblicani Europei è stato eletto consigliere Alessandro D'Alessandro attuale responsabile comunale del movimento. Il 23 giugno si è riunito il nuovo C C e il rappresentante dell' MRE è stato eletto Presidente del Consiglio Comunale.

lunedì 9 marzo 2009

Concluso 3° Congresso Nazionale MRE

Il 28 febbraio / 1° marzo si è svolto a Roma il 3° congresso nazionale del Movimento Repubblicani Europei. Al termine dei lavori i delegati hanno rieletto all'unanimità alla segreteria Nazionale la senatrice Luciana Sbarbati . Sul mensile Lucifero di Marzo verranno pubblicati gli atti del congresso. Lucifero potrà essere consultato sul sito del Movimento Repubblicani Europei di Montemarciano www.repubblicanieuropei-montemarciano.it .

martedì 17 febbraio 2009

Relazione on. Luciana Sbarbati segretaria nazionale MRE

III^ Congresso Nazionale
Movimento Repubblicani Europei
Roma 28 febbraio / 1° marzo 2009

Relazione Segretario Nazionale Sen. Luciana Sbarbati

La celebrazione del III^ Congresso Nazionale del Movimento Repubblicani Europei è stata deliberata a novembre, dopo un ampio dibattito in Consiglio Nazionale, a seguito della proposta avanzata dal Segretario, e sostenuta da diversi esponenti della direzione, in primis i dirigentri romagnoli. Siamo chiamati ad un compito delicato e decisivo per il futuro non solo del MRE, ma, credo, e ne sono seriamente convinta, di tutto il movimento repubblicano, indipendentemente dalla collocazione attuale nei due schieramenti. Parliamo del futuro di una cultura democratica, che ha dato tanto al nostro paese, lottato per l’unità, l’indipendenza e la Repubblica.

In questi ultimi dieci anni la vita del Movimento Repubblicani Europei è stata un lungo duro e coerente impegno per il Partito Democratico, attraverso l’Ulivo prima, la Federazione poi, la Lista Unitaria per le Europee, la costruzione di un programma rispondente alle esigenze del paese, ricco di contenuti nuovi, capace di operare una svolta nel sistema ingessato della politica italiana, che vedeva partiti asfittici, a corto di idee, impegnati prevalentemente a perpetuare se stessi e le proprie classi dirigenti.

Uscire dall’autoreferenzialità, aprirsi all’Europa, al sogno, alle scelte indicate da Romano Prodi è stata per noi una “missione politica”, che, con passione e tenacia, abbiamo perseguito senza rivendicazioni, con l’unica caparbia convinzione che noi dovevamo esserci, che il Partito Democratico sarebbe nato come “il partito della democrazia” di spadoliniana memoria. Quel Partito Democratico che anche Giorgio La Malfa preconizzò nel Congresso di Carrara, sintesi critica e aperta di culture storiche e democratiche del nostro paese, al servizio degli interessi generali, per ancorare l’Italia all’Europa, per rinsaldarla tra le grandi potenze, per restituirle un ruolo nello spazio globale della politica a difesa del multipolarismo, per una nuova definizione giuridica delle stesse Nazioni Unite, a garanzia della pace e dello sviluppo.

Il nostro compito, come forza laica, era quello di svolgere una funzione democratica, critica e costruttiva all’interno dell’Ulivo per il Partito Democratico, era fare la differenza, operando per la certezza dei diritti e dei doveri, la dinamicità, la concertazione, l’apertura di orizzonti più vasti in ogni settore della vita democratica a cominciare dalla scuola, dall’università e dalla ricerca, asse strategico per lo sviluppo del paese, per il rigore, a garanzia di una politica come servizio.

Era una grande, straordinaria sfida, che purtroppo è stata persa e non certo per nostra responsabilità. Il Partito Democratico è nato, ma è nato monco di una componente fondativa laica, moderna, autenticamente democratica. I Repubblicani Europei, dopo una tenace lunga resistenza al cinismo, alla indifferenza, alle umiliazioni, improvvisamente sono stati cancellati come soggetto politico, nel momento fondativo del nuovo partito, considerati superflui.

Tutto ciò solo per suggellare un patto di potere tra DS e DL, in cui non poteva esserci spazio alcuno per altri. Dall’oggi al domani, l’Ulivo era diventato un cartello elettorale per i DS e la Margherita, che volevano i nostri voti, ma pretendevano nel contempo di fare a meno della nostra bandiera, sintesi plastica della nostra cultura, che era stata assunta tra le storie democratiche dell’Ulivo per il Partito Democratico. Nell’indifferenza generale si compiva il genocidio politico dei repubblicani, come forza politica, partner di un progetto che contemporaneamente veniva snaturato. Per entrare nel Partito Democratico dovevamo bussare come singoli alla porta dei due più grandi partiti: un soggetto politico diverso da DS e DL non era ammesso; si chiedeva a repubblicani, socialisti e ad altri, di sciogliersi, rinunciare alla propria storia e alla propria cultura.
Il paradosso non si commenta, poiché da sempre i repubblicani ritengono l’Europa la loro cornice istituzionale di riferimento; il merito non una colpa, come spesso molte forze politiche continuano a considerare in nome di un piatto egualitarismo; la questione sociale non un obiettivo di carità verso i più poveri, ma la leva principale per innalzare la condizione economica e culturale dei cittadini, dando a ciascuno le stesse opportunità. I repubblicani conoscono, e non da ora, la distinzione tra il modello economico renano e quello americano, e da sempre sono vicini ai più alti livelli di democrazia. La programmazione economica e la politica dei redditi, sin dai tempi della “nota aggiuntiva” di Ugo La Malfa, è parte essenziale del nostro patrimonio culturale.

Dite voi se era possibile all’intelligenza politica di forze che dichiarano di essere riformiste, estromettere senza motivo i repubblicani dalla fondazione del Partito Democratico, negandoci la dignità politica di partito, della quale per contro l’Ulivo si era alimentato.

Il cartello del Partito Democratico è diventato via via più povero, ma non ha perso solo noi repubblicani. Ha perso l’entusiasmo e la partecipazione convinta di tanta parte della società civile, che si è rifiutata di farsi stritolare nella tenaglia DS – DL, che si stringeva sempre più, negando ogni possibilità di pluralismo. Ancor oggi, dentro il Partito Democratico, assistiamo a uno scontro non risolto per la supremazia tra DS e DL, che si consuma in modo sordo e feroce tra le classi dirigenti dei due vecchi partiti, che poi sono di fatto le classi dirigenti di quello che dovrebbe essere il nuovo partito. E’ praticamente assente il dibattito sui contenuti, non è chiaro quale progetto riformista si intende perseguire.

La nostra partecipazione al processo di costruzione del Partito Democratico è sembrata per un momento recuperata, con l’invito a “entrare” come Movimento, fattoci da Walter Veltroni, che ha consentito al MRE di non sciogliersi, di mantenere la propria autonomia, di partecipare alle elezioni politiche e di eleggere due senatori. Di questo siamo grati al segretario del Partito Democratico, ma ciò che chiedevamo non erano due posti in Parlamento, ma che si tornasse al progetto ulivista, al pluralismo, al dialogo e al confronto, all’apporto e alla valorizzazione delle diverse culture, in primis la nostra, quella laica, democratica e repubblicana. Così non è stato. E quella dei Repubblicani Europei è diventata sempre più una presenza invisibile e priva di senso all’interno del Partito Democratico.

Al centro, un’oligarchia chiusa e auto referenziale ragiona in funzione di un bipolarismo che è bipartitismo, essenzialmente per legittimarsi, incapace di definire un modello di partito riconoscibile; sogna il modello americano, impraticabile nel nostro paese, e lascia di fatto la periferia senza indirizzi, senza organizzazione. Questa “assenza” ha prodotto sul territorio un Far west di caporali, che allontana la società civile e chiude sempre più ogni possibilità di cambiamento, di avviare un grande dibattito, con il contributo di tutti, per la costruzione di un modello sociale completamente alternativo a quello del PDL.

Non c’è neppure lo spazio fisico per discutere di contenuti e, quando lo si trova, non è il partito a confrontarsi, ma sono le correnti, alle quali, è ovvio, noi non possiamo essere interessati.

I cittadini comuni non si appassionano allo scontro tra correnti, tra DS e DL, tra Veltroni e D’Alema, tra Bersani e Veltroni e comprendono sempre meno la fisionomia di un’opposizione, che, in qualche momento, ha visto perfino appannata la sua dignità. Sulle grandi questioni, da quelle etiche a quelle dei nuovi diritti emergenti, alla politica estera ed economica, alla laicità, si discute poco per timore di dividersi.

Specularmente la maggioranza conduce la sua azione politica con tracotanza e disprezzo delle regole, mentre il governo ritiene addirittura superflua l’azione parlamentare, che diviene sempre più marginale e scarsamente incisiva, stante il costante ricorso ai decreti legge e alle deleghe. Se a tutto questo aggiungiamo la vocazione per accordi di vertice, che è incomprensibile per leaders di due partiti che dovrebbero mettere a confronto in modo rigoroso e chiaro la loro diversità progettuale e ideale, che oggi è sfociata nell’accordo elettorale per le elezioni europee, nel voto di astensione del Partito Democratico sul federalismo fiscale - vera “marchetta” elettorale pagata alla Lega - negli accordi per la riforma della giustizia e della RAI, ne esce un quadro deprimente.

I senatori repubblicani, pur dando tutto il loro contributo tecnico ai lavori del Parlamento, soffrono il peso di una afonia politica, insopportabile per una forza che si è sempre spesa generosamente nella collaborazione con apporto di idee, sfidando anche l’impopolarità per le sue posizioni scomode, che, alla lunga, si sono rivelate vincenti.

La nostra voce non conta. In tanto conformismo è quasi folcloristica, perché nessuno osa più di tanto disturbare chi detiene il potere, in forza di una legge elettorale che consente al candidato premier-segretario di “eleggere i parlamentari”. Nessuno spazio sui media, anch’essi vincolati alla logica dei più forti, e spesso costretti a concentrarsi su orrende banalità, contrabbandate per “necessità democratiche”.

Ciò che conta è “essere di qualcuno”.
Io ribadisco qui a voi tutti, e convintamente, che i repubblicani, i repubblicani europei, non possono essere di nessuno. Essi sono repubblicani per la Repubblica e perciò né di Veltroni, né di Berlusconi.

Sono l’espressione della loro storia, dei valori mazziniani di unità, democrazia, libertà e giustizia, della religione civile, della cultura e del sapere come nutrimento dello spirito per un nuovo umanesimo, che deve aprirsi con rispetto e umiltà alle nuove frontiere della scienza, costrette nel difficile equilibrio tra etica e diritto. L’esistenza del Partito della Democrazia, che per oltre un secolo è riuscito a svolgere la sua azione politica con lungimiranza, non può venir meno perché qualcuno, a colpi di leggi elettorali su misura, persegue un bipartitismo forzato, la reductio ad unum, da sempre sogno delle dittature di destra come di sinistra.

Il cinismo perciò è il vero eroe, il tratto comune del nuovo arco costituzionale. Un cinismo che, pur di perseguire i suoi scopi, mette a tacere i tanti scandali della nostra società, la deriva del malgoverno, che spinge sempre più il paese in un baratro dove non ci sono più che cattive notizie e, tra le cattive notizie, anche il pessimo stato di salute dei repubblicani, ai quali si chiede di conformarsi alle logiche parrocchiali del grande partito del nuovo. Ecco perché questo, ancor più degli ultimi che abbiamo celebrato, è il congresso della responsabilità.

Intendiamoci: molti “non detti” della nostra società e della politica, vengono di tanto in tanto pronunciati a voce alta, o perfino gridati ai quattro venti, da Di Pietro, dai Radicali, da noi Repubblicani. Gridare ai quattro venti però non serve, e tanto meno è utile scaldare piazze più o meno rumorose, né persistere a mettere il dito su qualche verità scomoda, come l’assenza di legalità, il mancato rispetto dei patti, il disprezzo della laicità, le leggi ad personam, l’ipocrisia del dialogo tra maggioranza e opposizione, gli inciuci tra affari e politica, quando le battaglie politiche, anche le più nobili, finiscono con l’essere percepite come ossessioni personali, grazie al messaggio spudoratamente orientato di media compiacenti.

La politica in Italia ha bisogno di tre cose: idee, carattere, azione di governo. Le idee perché l’Italia è un paese di cultura anche nella politica, un paese che non si deve accontentare di personalismi e di intuizioni in ordine sparso, perché ha visto da sempre l’azione politica in un contesto ampio, in un percorso dove il domani, ciò che per il domani si prepara, è costruito con la piena consapevolezza di ciò che è stato fatto, dove poche cose al mondo sono più preziose della storia, del nostro essere come italiani “comunità inscritta in un percorso”.


Per questo i repubblicani esistono e vogliono continuare il loro impegno democratico, orgogliosi della propria tradizione e degli ideali mazziniani.

Per quanto debole sia oggi il repubblicanesimo, esso è ancora capace di “ricordare”, metabolizzare le prove della storia patria, farne le radici delle scelte dell’oggi. I repubblicani possono essere fastidiosi al potere se esso è miope, come possono esserlo gli appartenenti ad un’altra minoranza, etnica questa volta, gli ebrei. Non è un atto di presunzione: è la piccola minoranza che vuole che la politica non sia cronaca, ma sia guidata da principi ideali, che vengono da lontano, che hanno passato la prova del fuoco di battaglie lunghe e dolorose, spesso bagnate dal sangue di combattenti e di martiri della libertà. Tale consapevolezza costituisce il tanto ricordato “orgoglio repubblicano”.

Coltivare però le idee di un’antica tradizione non serve a molto, se esse non sono vissute e comunicate al resto del paese, con la forza dell’azione, la capacità di scuotere le coscienze, di risvegliare le orecchie assopite di un’opinione pubblica ormai rintronata dal bombardamento di mille e uno messaggi. Noi repubblicani questo carattere ce lo abbiamo: è la passione per la politica, non per il potere. E ci sconforta il constatare che “il carattere” sia andato perso nel panorama della politica italiana, dove regna un modo di comunicare, di raccontare e di raccontarsela, che, più che da politica dignitosa, pare da “Grande Fratello”. C’è una politica fatta di battutine, slogans, banalità trite e ritrite, una politica esangue, tutta tattica, incapace di un moto di indignazione, di provare vergogna e rabbia, ammosciata sui divani dei salotti televisivi, assuefatta. Una politica dove si consumano teatrini come quello a cui hanno assistito qualche mese fa gli italiani: Berlusconi ha dichiarato di aver trascorso una serata in una discoteca alla moda di Milano, ne è uscito quasi all’alba rassicurando gli italiani che non solo si era divertito, ma che la festa non era ancora tutto, che il bello stava per cominciare, che a lui bastano poche ore di sonno, che così si deve fare.

Gli italiani, alle prese con la crisi che ha investito il mondo, con la quadratura improbabile dei bilanci familiari, sono stati rassicurati nelle loro angosce: tutto va bene in Italia, tutto torna, lo ha detto Lui.

Questo il carattere della politica italiana. Non stupisce allora che quando un repubblicano ha la possibilità di parlare, di farsi intendere da una platea, sappia farsi ascoltare. Noi tutti siamo consapevoli che essere repubblicani implica essere cresciuti ad un certo tipo di scuola politica, una scuola severa, che non regala mai nulla, ma forma senza soste all’analisi critica, alla volontà, all’orrore per la banalità e al carattere di chi rispetta le regole, della correttezza politica e sa combattere.

Tutto questo, una tradizione ancora feconda ed una classe di donne e di uomini politici agguerriti e di razza, rischia però di rasentare la sterilità, se non si traduce in un’azione di governo: questo è il punto debole dei repubblicani.

Da oltre dieci anni, salvo parentesi poco incisive, siamo assenti dal governo del paese, dalle giunte dei capoluoghi regionali o provinciali, a parte sporadiche eccezioni, da incarichi di responsabilità istituzionali. Ai repubblicani questo onere e questo onore sono da tempo negati. Meglio i “traditori”, meglio i saltimbanchi, gli inaffidabili, emblematici interpreti dell’atavico trasformismo italiano, per garantirsi squallidi serbatoi locali di consenso elettorale, che non i repubblicani.

Nell’escluderci si sono cimentate tanto la sinistra che la destra. Potremmo parlare a lungo di tutto ciò, ma non serve, sono cose che sappiamo e che sanno bene anche i nostri alleati.

Del resto oggi la politica è impegnata in ben altro che nel far crescere e valorizzare una classe dirigente democratica e moderna. E’ assorbita in un continuo regolamento di conti, in primo luogo fra appartenenti allo stesso partito, poi fra alleati ed ex alleati, mentre la dialettica governo – opposizione, tra tante polemiche e scorribande, è quasi irrilevante.

Da troppi anni il repubblicanesimo non riesce più ad incidere nel patrimonio politico di governo del nostro paese. Di qui il pericolo che noi repubblicani si confonda la necessità di salvaguardare i simboli, la tradizione, l’appartenenza, con il bene supremo del paese. Il dovere principale dei repubblicani non è tanto quello di difendere la bandiera, ma soprattutto di trovare le forme più efficaci per affermare il bene collettivo. “Bene collettivo”, del resto, è un’espressione che pare appartenere più ai marziani, che agli italiani. L’ingovernabilità è governabilità di affarismo, conflitto di interessi permanente, oblio dei valori e della solidarietà. Il paese cola a picco, il debito incalza ed è uno dei più grandi in Europa, e nessuno vuole ricordare che un punto percentuale di debito in più o in meno, equivale a circa 7 miliardi e mezzo. Le nuove generazioni ci stanno già maledendo.

La Spagna ha superato l’Italia come ricchezza individuale, che è quella che conta, la Grecia, e perfino la Slovenia, si accingono ad altri sorpassi. In Italia nessun dibattito, né a destra né a sinistra, si è aperto a seguito di questo dato, che segna un’epoca, non è un dettaglio di cronaca. Il paese continua a scivolare indietro nelle classifiche di burocrazia, assenza di trasparenza, condizioni per investimenti, ricerca, parametri di educazione, efficienza della giustizia, accesso al mercato, possibilità e sicurezza del lavoro, e ancora.

L’Italia ha bisogno di riforme strutturali: ridisegnare il meccanismo della pubblica amministrazione, abbattere i costi della politica, mettere l’età pensionabile reale in linea con gli altri paesi europei, creare un sistema sociale, un nuovo welfare, che garantisca il cittadino e la famiglia, che non assista improduttivamente il lavoratore, senza prendersi cura di una sua formazione o riconversione, stante l’estrema fluttuazione e fragilità del mercato del lavoro.

Finora la sinistra ha fallito nella capacità di governare il paese, nel compito di portare l’Italia nella modernità. Per contro la destra le riforme strutturali le fa: il federalismo sfascista del paese, che noi repubblicani europei non abbiamo votato, perché è un federalismo non unitario, senza un senato delle regioni, senza una carta delle autonomie, in cui la redistribuzione alle regioni più povere è pressoché affidata alla carità di quelle più ricche, senza pari opportunità e senza coperture di bilancio, con riforme della giustizia parziali e per spot, con sconti all’evasione fiscale, con attentati alla Costituzione aperti e sfacciati, che si spingono fino a tentativi di coinvolgere, per delegittimarlo, il Capo dello Stato in questioni in cui non può essere coinvolto.

Il Presidente Napolitano va tutto il nostro sostegno e il nostro grazie convinto per il modo pacato e di grande equilibrio con cui assolve il suo alto compito di garante della Costituzione repubblicana e dell’unità del Paese.

E’ evidente l’attacco ai principi costituzionali, che regolano l’equilibrio tra i poteri, e la volontà di stravolgere e piegare la Costituzione a interessi personali. Del resto l’attentato alla scuola della Repubblica, che mina la certezza di un diritto costituzionalmente protetto, e apre alla pressoché totale privatizzazione di un servizio pubblico essenziale, che dovrebbe garantire a tutti il diritto all’istruzione, è la palese dimostrazione del declino rapido e inesorabile del nostro paese.

La crisi infatti, prima che economica, è culturale, senza precedenti, globale, e il Governo la sta affrontando solo sul piano politico-propagandistico.

L’intento primario è come sempre dividere il Paese: da una parte ci sono i pessimisti, quelli che credono nella diagnosi di Obama e di Stiglitz, che vedono una crisi lunga e durissima; dall’altra ci sono gli ottimisti, quelli che credono nella diagnosi del Premier, che sostiene la natura congiunturale ed il decorso breve. Berlusconi si è limitato fino ad ora a lanciare anatemi ai primi ed a annunciare interventi, ancora da definire, prevalentemente del tipo sostegno alla domanda di consumi, come si conviene ad un approccio congiunturale.

La crisi è invece il primo vero terremoto economico dell’era della globalizzazione. Essa definisce e caratterizza l’orizzonte politico dei prossimi cinque anni e ciò che si farà in questi anni sarà decisivo per il futuro del Paese. Siamo di fronte alla alternativa tra il rilancio e la rassegnazione, o, per dirla con Ugo La Malfa, tra il rimanere aggrappati alle Alpi, ma in Europa o precipitare nel Mediterraneo.

In cima a tutto vi è nel 1971 la decisione degli USA di denunciare unilateralmente l’accordo di Bretton Woods, annullando la convertibilità del dollaro ed accollando al resto del mondo il problema della moneta per gli scambi internazionali.

Come sostiene Paolo Savona su Limes, con acuto ravvedimento, inizia così una nuova era in cui lo sviluppo degli Usa avviene anche al di là delle loro capacità produttive, finanziato dal risparmio del resto del mondo. Questa strategia è fondata sulla dottrina miracolistica del Club di Chicago per la quale la flessibilità dei cambi avrebbe garantito agli USA sia l’equilibrio dei conti con l’estero, sia la protezione dall’inflazione importata. In parallelo, ed in base alla stessa teoria, gli USA concepiscono e sostengono la liberalizzazione globale degli scambi della WTO ed aprono la strada allo sviluppo del mercato globale. Esso viene affidato tuttavia al fluttuante cambio del dollaro non convertibile, calmierato dal cambio fisso della Cina - motore della domanda globale - e dalla nascita dell’Euro. L’espansione del mercato globale che ne deriva è il motore dello sviluppo degli ultimi quindici anni.

Pur marciando sull’onda della liberalizzazione degli scambi, la globalizzazione ha il suo tallone di Achille nella assenza di un sistema monetario istituzionale, regolato, condiviso, gestito e sopratutto capace di finanziare lo sviluppo.

Il centro focale della crisi si trova in particolare nella possibilità di cessione dei prestiti, affidata non alle tradizionali regole dei mercati finanziari, ma alle valutazioni delle Agenzie di rating, non sempre scevre da conflitti di interesse. Si è consentito in tal modo ad un numero infinito di operatori senza scrupoli di operare senza capitali e senza valutazione del rendimento e del rischio di questi nuovi strumenti, e quel che è peggio, di creare un labirinto tale da rendere incalcolabile, anche per gli addetti ai lavori, la valanga dei titoli spazzatura.

Siamo davanti non alla sconfitta del mercato, ma alla sua distruzione per mancanza di regole, impudenza ed arrogante ignoranza.

La crisi è fortemente aggravata dall’impatto su un profondo fattore di tensione quale è il processo ormai avanzato di ristrutturazione della divisione internazionale del lavoro, trainato dallo sviluppo del mercato globale e dalla forte presenza in esso dei nuovi giganti industriali che, con oltre 2,5 miliardi di persone, ampliano di due volte il potenziale del mercato dei beni industriali: Cina e india in testa (PIL in crescita annua dal 7 al 12%), più Tigri asiatiche, Sud America e persino Africa (PIL annuo a + 5).
Lo sviluppo del mercato globale frena pesantemente in un momento in cui il PIL della Cina ha quasi raggiunto quello degli Stati Uniti, viene cioè a coincidere temporalmente con il massimo della tensione causata dal cambiamento della divisione internazionale del lavoro, peraltro ancora non assestata, ed in un contesto in cui il terrorismo non è stato sconfitto, l’ordine mondiale è ai minimi termini dopo dieci anni di unilateralismo e di errori della gestione Bush, anzi riesplode in maniera tragica nel conflitto israelo-palestinese, in cui le Nazioni Unite, l’Europa e l’Italia, sono chiamate a svolgere un ruolo di importante mediazione sulla linea “due popoli, due patrie”.

Tutte le conquiste economiche e di civiltà degli ultimi anni appaiono nuovamente in discussione, e per alcune popolazioni lo sono persino quelle che parevano consolidate da decenni.
Il fondo non è stato ancora toccato e l’immanente blocco della globalizzazione rischia di rilanciare la corsa al localismo ed al protezionismo, quindi all’impoverimento.

Il rischio è massimo: l’Europa che fatica ancora a darsi una fisionomia politica per competere come continente nel mondo globale e incidere con autorevolezza nei nuovi equilibri internazionali, appare disorientata e, invece di pensare unitariamente, sembra preferire rigurgiti di chiusure nazionalistiche.

E’ a repentaglio il già incerto equilibrio politico ed economico del pianeta e nello scenario si profila addirittura lo spettro della terza guerra mondiale, come testimoniano i sempre crescenti stanziamenti nel bilancio degli Stati Uniti per la guerra totale, la corsa al nucleare dell’Iran, di paesi africani, del Pakistan, che apre scenari inquietanti e pericolosi. Non si può dimenticare che la seconda guerra mondiale nasce nel contesto della grande crisi del ’29, peraltro meno grave e meno globale di quella attuale. Lo stesso Obama sarà chiamato a prendere decisioni improcrastinabili e forti, se vuole dare un nuovo corso ad una riconquistata, ma fragile, leadership americana, fondata sulla promessa, sulla speranza, che attende però la verifica dei fatti.

Alla luce di queste considerazioni, la crisi assume i caratteri della rottura del modello di sviluppo corrente, simbolizzato dalla scoperta della finta ricchezza della finanza creativa che ha consentito agli Stati Uniti di vivere al di sopra delle proprie possibilità dall’incompiuto assestamento della nuova divisione del lavoro, dalla folle corsa delle quotazioni del petrolio che ha preceduto la crisi ed infine dal fallimento del protocollo di Kyoto, con il radicale deterioramento della situazione climatica, energetica e più in generale ecologica del pianeta.

Lo stesso Tremonti, all’inizio, aveva ammonito che la crisi sarebbe stata lunga e profonda perché si era verificata una rottura del modello di sviluppo, ma poi ha prevalso la linea dell’ottimismo ed il Ministro è diventato minimalista.

Obama e Al Gore ritengono giustamente che la crisi si batte rispondendo alla sfida del riscaldamento globale, con un nuovo modello di sviluppo, un radicale cambiamento del modo di vita, del sistema energetico e dei sistemi di trasporto.

I pilastri del nuovo “new deal” sulla scena mondiale sono quindi essenzialmente quattro:
- nuova Bretton Woods con regole rigorose e condivise per dare forza al mercato globale;
- rilancio dell’ONU per dare al mondo un nuovo ordine mondiale per grandi poli geopolitici integrati;
- attenzione e stimoli innovativi all’economia della produzione più che del consumo, e quindi più conoscenza, più sapere, più tecnologie, più ricerca, più lavoro;
- priorità all’integrazione economia/ambiente per produrre il futuro.

Per i Repubblicani Europei la politica estera del Governo fatica a integrarsi nelle linee della nuova leadership USA, e contribuisce in modo timido e spesso contraddittorio al consolidamento dell’Europa, che può avere grande rilievo nel nuovo equilibrio multipolare, e a far ritrovare all’Italia la strada del proprio sviluppo economico. La Unione Europea è infatti la forza reale principale della nostra economia, che ci protegge con l’Euro, per troppo tempo bersaglio sbagliato delle forze di centrodestra, e rappresenta il 58% delle nostre esportazioni e il 54% delle nostre importazioni. Ciò significa che l’Italia non può crescere nel mondo globale se non sostenendo le politiche europee e fruendo del loro successo.

La nostra politica economica deve resistere alle tentazioni statalistiche e protezionistiche, presenti non solo nella Lega, e puntare sul mercato come strumento primario di verifica e misura dell’attività economica da restaurare con poche regole ispirate da due principi cardinali: la libertà degli scambi e il divieto della commistione degli interessi.
La linea di governo deve puntare sulla coesione sociale come forza fondamentale per lo sviluppo - un tempo la destra la chiamava il morale della nazione - che in Europa si crea da sempre con patti trilaterali di convergenza concertata Governo-Imprese-Sindacati, veri strumenti di pacificazione e motori di sviluppo attraverso la condivisione dei vantaggi, nonché su una nuova politica per l’immigrazione, che va regolata e coordinata a livello europeo e gestita come una risorsa.

Se il Paese è spaccato per principio, la crisi non si può battere. E’ essenziale perciò includere tutti gli interessati, nell’obiettivo del suo superamento come è accaduto più volte nella storia della Repubblica: nel dopoguerra con il Patto del Lavoro De Gasperi-Costa-Di Vittorio, nel 1952 con la Politica di Liberalizzazione degli Scambi La Malfa-Costa, e nel 1993 con l’accordo Ciampi-Abete-Trentin sulla Politica dei Redditi .

A differenza del centrodestra, i Repubblicani Europei ritengono che sia necessario scegliere interventi per rafforzare l’economia reale, fondata sul primato della produzione e dell’innovazione piuttosto che del consumo, evitando di affrontare la crisi in termini di sostegno alla domanda. Il Paese si trova infatti in una condizione precaria sia sul piano delle risorse pubbliche (debito pubblico sulla soglia del 110% e pressione fiscale al limite della sopportabilità), sia sul piano della competitività (distratto negli ultimi 15 anni dal costante fare e disfare delle alternanze è scivolato spensieratamente dal sesto posto al quarantesimo nella relativa classifica ). Con questi records l’Italia rischia di perdere lo status di paese esportatore e di scoprire amaramente che gli stimoli al consumo alimentano le importazioni più che lo sviluppo.

Il Governo invece ha reagito al crollo dell’economia finanziaria, puntando sull’unanime proposta-slogan del ritorno alla economia reale. Si rischia tuttavia (anche in chiave bipartisan, con differenze solo sulla entità degli interventi) di interpretarla come la bengodi degli aiuti di Stato, oscillante tra la rinascita dello “stato imprenditore” e la distribuzione di denaro per sostenere il livello dei consumi.

A questa vulgata è meglio preferire politiche industriali sul lato della produzione e della competitività, di rilancio dello sviluppo con l’innovazione e la riconversione del sistema produttivo.

Da anni non siamo più la quarta potenza industriale del mondo perché siamo stati spiazzati dalla nuova divisione internazionale del lavoro avviata dalla globalizzazione.

I riferimenti di una politica dell’economia reale centrata su produzione e competitività sono per noi:
- sviluppo innovativo e sostenibile, cambiando l’industria ed il trasporto con innovazioni di prodotto, di processo e di promozione della logistica, anche dei rifiuti e del riciclo, e reinventando la struttura delle città, selezionandone i traffici, sviluppando il trasporto collettivo, ampliando la conoscenza dei flussi e dei bisogni vitali con la misurazione statistica dei fenomeni, investendo su lavori che produrranno un nuovo welfare e infine facendo massa critica con le politiche europee sul clima e sulla crisi globale;
- politica dei redditi estesa ai servizi e centrata su competitività senza inflazione, con ordine nei conti pubblici, produttività, meritocrazia, e ritmi dei redditi per stabilizzare i consumi, ecc.;
- politica industriale per fattori: infrastrutture, quelle, anche grandi, che servono subito per l’efficienza dei processi produttivi e logistici, con priorità per le opere che rafforzano l’integrazione con il mercato europeo, e sviluppo dei mercati dei fattori di produzione, ovvero di tecnologie, credito e finanza, fonti energetiche, innovazione per le città e l’ambiente, con una attenzione speciale per la politica meritocratica del lavoro.

La logistica può e deve rendere economico il trasporto, poiché i suoi costi ci relegano al 132° posto nella classifica della World Bank, ed è come un dazio all’importazione che pesa sul Paese e sospinge l’inflazione. Occorre il rilancio della politica industriale , compatibilmente con le norme europee, tramite la partecipazione al network intercontinentale ed alla Zona di Libero Scambio del Mediterraneo, con scelta e valorizzazione dei porti gate e hub, che a seguito dell’apertura del Canale si Suez sono diventati strategici (vedi Gioia Tauro); sostegno al nostro armamento; utilizzo della Ferrovia e degli interporti lungo i corridoi TENt, potenziamento delle autostrade del mare. Servono interventi per risolvere il problema del transito alpino con sistemi più economici, nonché per aiutare l’autotrasporto ad uscire dalla droga dei sussidi, circa 750 milioni € annui.

Un progetto di sviluppo della logistica e dei mezzi di trasporto è improcrastinabile, data la attuale arretratezza, e potrebbe dare una forte spinta allo sviluppo sostenibile e ridurre l’inquinamento. La mancata ottimizzazione logistica implica infatti anche una maggiore aggressione all’ambiente.

L’atteggiamento del Governo rispetto alla politica di concertazione, è noto a tutti. Noi riteniamo che non sia utile avere dei comportamenti differenziati a seconda che si consideri il Governo più o meno attento alle convenienze di ciascuna parte sociale. L’unità sindacale, strumento di promozione e di difesa dei diritti – doveri dei lavoratori, va considerato un bene indisponibile, che nel mentre i lavoratori vivono l’angoscia dell’insicurezza e della precarietà del lavoro, deve porsi l’obiettivo di costruire un nuovo patto tra produttori e lavoratori, tramite la politica di concertazione, per affrontare i nodi della congiuntura economica, la crisi del sistema produttivo, il rischio della recessione, se non quello della depressione.

Servono regole e istituzioni che abbiano il coraggio di ridefinire il commercio mondiale, mediante un nuovo rapporto tra le monete per fornire un sufficiente grado di stabilità. Va ricostruito un nuovo equilibrio tra il capitale e il lavoro, tra il mercato e lo stato.

L’aver globalizzato l’economia e non la politica ha creato lo slogan della “ricchezza senza nazione e nazioni senza ricchezza”. La politica deve tornare a governare l’economia, perché l’agire politico e quello economico e finanziario siano informati all’etica per il sociale.

Non si tratta certamente di alimentare il debito pubblico, ma di abbracciare un nuovo modello che faccia del sapere e della cultura gli assi strategici per invertire la tendenza, creando una nuova idea di sviluppo, in cui conti l’autodeterminazione, la formazione, la capacità dell’utilizzo dei nuovi strumenti tecnologici e dei nuovi linguaggi, di sfruttare i risultanti della ricerca adeguatamente per competere in Europa e nel mondo.

Il premio Nobel Levi Montalcini sostiene che “il grande merito della scienza non è quello di averci liberato dalle malattie, ma quello di averci liberato dalla superstizione e dall’ignoranza.” E io ritengo, mazzinianamente, che l’ignoranza è la più grande delle povertà e che la povertà è la madre di tutte le violenze.

Sul terreno della scuola, dell’università e della ricerca, e quindi del sapere, noi Repubblicani europei giudichiamo negativamente l’azione del Governo, dentro la quale certamente c’è qualche spunto positivo, che però non è sufficiente. La cosiddetta Riforma Gelmini, che riforma non è, ma è una serie di piccoli mediocri spot, che hanno assecondato le grida della pancia degli italiani, più che le esigenze della ragione, non ha affrontato, con il coraggio che doveva, se non altro in omaggio alla forza numerica della maggioranza, il tema della riforma ordinamentale della scuola, dei contenuti del sapere, per i quali è necessaria una rivisitazione scientifica, della qualità dell’insegnamento e della formazione dei docenti, della necessità di università di eccellenza, fondate sul sapere, frutto di una ricerca libera, autonoma e responsabile, utile al paese e al rilancio della nostra economia, non alla proliferazione delle cattedre.

E’ mancato il coraggio necessario, o la competenza, per un intervento quadro, snello, efficace, condiviso, per avviare nel nostro paese una vera politica di riordino del sistema universitario, di concerto con le esigenze della comunità scientifica e delle parti sociali, che avesse un respiro pluriennale e strategico. Noi riteniamo indispensabile concretizzare nel nostro paese un’anagrafe della ricerca e avviare un piano quinquennale per la ricerca, l’università e la scuola, con adeguati finanziamenti, secondo le indicazioni del Vertice di Lisbona.

La funzione della scuola, a cui la Repubblica affida le nuove generazioni, che sono il suo bene più prezioso e la speranza per una società che sia sempre più libera, aperta, equa e rispettosa della legalità, è una funzione istituzionale troppo alta per maneggiarla con tanta superficiale disinvoltura e mentalità ragionieristica. L’intelligenza, la conoscenza e il merito, con la capacità di impiegarli in ogni manifestazione del vivere, individuale e associato, sono le risorse fondamentali del nostro Paese, come di ogni altro.

Sapere, comunicare il sapere e costruire il sapere, sono sempre state le leve potenti che hanno consentito all’Italia di mantenere alti, a livello mondiale, identità e prestigio culturale, anche nei momenti più bui della nostra storia. Queste qualità ci hanno consentito anche di dare un contributo significativo a tutte le civiltà con cui ci siamo incontrati, scontrati e più o meno profondamente integrati. Solo con il loro potenziamento riusciremo ad affrontare il grande tema dell’immigrazione, senza lasciarci travolgere.

Sul piano economico la nostra competitività è stata possibile solo grazie alle risorse umane, che hanno ampiamente compensato la povertà di materie prime. Ricordiamo a Berlusconi e alla Gelmini che di questa realtà si è fatta interprete la nostra Costituzione, indicando nella libertà dell’arte e della scienza e del loro insegnamento, un valore assoluto. E se ne è fatta interprete, altresì, indicando nel lavoro il nostro fondamento comune e fra i diritti-doveri più impegnativi, la valorizzazione della capacità e del merito, tanto da destinare risorse alla promozione, fino ai più alti gradi degli studi, anche dei non abbienti, purché capaci e meritevoli.

Ciò che serve è un sistema di istruzione che, a partire da questi presupposti, sia governato con efficacia nel suo difficile compito di rendere partecipi quanti più cittadini è possibile, per tutto l’arco della vita, dello straordinario patrimonio di arte, di pensiero scientifico, di geniali intuizioni tecnologiche, di eccellenti abilità operative, che possediamo, ed anche, ovviamente, di ogni genere di espressione dell’esperienza, avvalendosi della lingua italiana per rendere con vivezza ed efficacia qualsiasi contenuto, potenziando anche lo studio di altre lingue e linguaggi, per accrescere la cultura e le capacità comunicative. Ciò vale per le giovani generazioni, ma anche per gli adulti.

La scuola della Repubblica non deve pretendere, né può, di imporre un unico modello a cui tutti devono uniformarsi, rischiando penose e precoci selezioni. Di qui l’importanza del tempo pieno e del tempo prolungato, delle sperimentazioni, degli interventi di sostegno, dei laboratori, della possibilità di usare e sperimentare nuove metodologie, concependo le diversità come una risorsa. Di qui l’esigenza, largamente disattesa, di disegnare un ordinamento ricco di offerte e di opportunità, onde valorizzare le qualità dei singoli e sapere interpretare in tutta la loro complessità, con una grande capacità di integrazione tra scuola e società, le occasioni di inserimento nella vita attiva, che il mondo reale offre. La scuola, l’università e la ricerca si devono porre nuovi traguardi, rispetto ai quali devono tornare ad essere protagoniste, con creatività, aggiornando le proprie competenze, utilizzando verifiche a questo scopo interne ed esterne. Il sapere e l’istruzione sono la base insostituibile per lo sviluppo del paese in ogni campo: da quello della crescita civile a quello dello sviluppo delle conoscenze, delle esperienze ragionate e dell’economia, che si alimentano del sapere e del saper fare di ciascuno, prendendosi cura, con uguale attenzione degli svantaggi, delle disabilità, delle eccellenze e del diverso merito, riconoscendo, senza controproducenti egualitarismi, chi è più e meglio in grado di contribuire alle esigenze complessive della società, in uno spirito di solidarietà, ma non di livellamento.

Gli ordinamenti vigenti e le pseudo riforme da poco introdotte, i contenuti dell’attività amministrativa, centrale e periferica, i diversi livelli e strumenti del governo del sistema di istruzione e formazione, hanno bisogno di una cura radidcale e, nel contempo, della trasparenza delle decisioni, della puntuale verifica della fattibilità dei cambiamenti avviati, del monitoraggio costante di ciò che avviene nelle scuole, nelle università. negli istituti di ricerca, per produrre un cambiamento davvero efficace, ma soprattutto giusto.

I repubblicani non possono lasciarsi coinvolgere dal troppo facile complesso di persecuzione.
Si deve prendere atto che il disegno bipolare della democrazia italiana, da sempre sostenuto dai Repubblicani Europei, ci ha emarginato, relegandoci al mortificante diritto di tribuna in Parlamento.

Oggi l’offerta politica è per soli due partiti. La scelta che ci si offre, nel centrosinistra, è tra entrare nel Partito Democratico o rassegnarsi a saltare non un giro”, ma un intero ciclo. Una scelta talmente violenta che spinge sia noi, Repubblicani Europei, che il PRI, che ha lo stesso problema a destra, ad interrogarci sull’opportunità di uno scioglimento, che ha messo in ginocchio altri partiti più consistenti numericamente del nostro, che induce alcuni repubblicani europei ad aderire individualmente al Partito Democratico, alla ricerca di una collocazione che li vedrà solitari, sciolti in un oceano di malintesi e rinnovamenti disattesi, come è oggi il Partito Democratico. A loro auguriamo buona fortuna: ci facciano sapere cosa avranno trovato al loro approdo.

Tuttavia sarebbe un errore credere che questa condizione di stritolamento e mortificazione sia solo dei repubblicani. Nel centrosinistra altre forze si interrogano sulle prospettive future.

In presenza di un sistema elettorale maggioritario, come quello italiano, pur nell’alleanza con il Partito Democratico, noi Repubblicani Europei abbiamo cercato di mantenere un’identità e un’autonomia, rivendicata anche nel nostro apporto programmatico dato a Veltroni, in occasione dell’ultima campagna elettorale.

L’autonomia e l’identità sono per noi irrinunciabili, perché non ci può essere un’appartenenza acritica ad uno schieramento predeterminato per noi che siamo storicamente il “partito dei contenuti”.

I Repubblicani non hanno mai accettato una visione bipartitica della vita politica italiana. Se lo avessimo fatto saremmo entrati o nella DC o nei DS o nei DL, ma, si può rinunciare all’indipendenza e all’autonomia del partito a causa di un sistema elettorale?

Bipolarismo non significa bipartitismo, come pluralismo non significa frammentazione.

Le due cose, nel dibattito politico italiano sono spesso volutamente e proditoriamente confuse. Il bipolarismo, nel sistema democratico, presuppone che governo e opposizione si organizzino per contrapporsi in due poli, che non devono necessariamente trasformarsi in due partiti, per dare stabilità ai governi e consentire l’alternanza, così come avviene in tutti i paesi europei.

Noi crediamo che l’esistenza di una pluralità di partiti, non la loro frammentazione, caratterizzati da un progetto politico e da una visione ideale della società, offra più serie garanzie non solo di rappresentanza delle idee dei cittadini, ma di più efficace azione di governo, con effettivo pluralismo.

Nel nostro paese è in atto una becera genuflessione del governo e dei partiti politici nei confronti delle gerarchie cattoliche, che è sempre più insopportabile, perché mina la laicità dello Stato, con una pericolosa deriva neoconfessionale, che rischia di vedere la stessa Chiesa vittima di un eccesso di interferenza, perché da tempo sconfina dai doveri inerenti alla cura pastorale, al fine di indirizzare politicamente la vita dei credenti.

Il Partito Democratico non affronta seriamente il grande dibattito sulle questioni etiche, sul rapporto tra diritto ed etica, sulla libertà della scienza e della ricerca scientifica, nella dimensione problematica delle nuove frontiere. C’è un pensiero clericale, assunto più che per convinzione, per utilità elettorale, che informa le decisioni di un Parlamento che dovrebbe rispondere liberamente solo al popolo sovrano che lo ha eletto, nel pieno rispetto di tutte le religioni, senza commistioni tra politica e religione. Il dialogo con le Chiese va ritrovato, ma su livelli più alti e in un confronto costruttivo, nel rispetto della reciproca autonomia: la Repubblica è fondata sulla laicità dello Stato.

A fronte di questa problematica situazione è necessario costruire un punto di riferimento autonomo, che rappresenti la tradizione e la cultura laica, repubblicana, liberale, riformista, autenticamente democratica senza aggettivi, presente in tutti i grandi paesi europei. Non solo la deriva morale, economica, culturale e istituzionale del paese ce lo impone, ma ce lo impone lo stesso sbarramento al 4%, introdotto per le elezioni europee, pena la riduzione al silenzio, al pensiero unico, al conformismo di una cultura politica ultracentenaria.

Le scelte non sono rinviabili, sia per il bilancio politico fatto, sia per le scadenze che ci attendono. I Repubblicani Europei rifiutano di adeguarsi al bipartitismo e di sciogliersi, in modo subalterno, in un contenitore più grande che non è il Partito Democratico, che da sempre è stato nel nostro DNA e che l’Ulivo intendeva costruire, ma è altra cosa.

Quando Veltroni esibisce De Gasperi, Rosselli, Ugo La Malfa, ci comunica una sola cosa: “facciamo a meno di voi”, perché ci sottolinea che dentro il Partito Democratico ci sono tutte le tradizioni politiche democratiche della sinistra, anche la nostra, e che egli le rappresenta, non noi, che dobbiamo essere assimilati per essere cancellati.

Specularmente Berlusconi può dire, e dice lo stesso, ai repubblicani che sono nel centrodestra per il PDL.

Veltroni afferma che il Partito Democratico ha superato le tradizioni identitarie, che è oltre, ma io mi chiedo se questo è vero, viste le resistenze identitarie dei DS, nelle loro varie componenti, e quelle dei Popolari nella Margherita, che non hanno fatto un passo avanti nella contaminazione effettiva, frutto di dialogo e di condivisione per un progetto unitario, ma si sono attestate solo su un patto elettorale.

Questa è la violenza della supponenza, è arroganza di chi pensa di bastarsi, ma, per contro, per continuare a recitare questa parte, ha bisogno di una legge elettorale che elimini ogni contendente democratico, senza peraltro essere ancora in grado di offrire al Partito Democratico un’identità certa in Europa, cosa che almeno Berlusconi ha da tempo risolto, con l’ingresso di tutto il PDL nel Partito Popolare Europeo, facendo acquistare alla sua parte una dignità che non aveva.

Più apprezzabile, perché più chiara, la posizione di Massimo D’Alema, che, avendo affrontato da tempo la questione della socialdemocrazia europea, non intende lasciare questa casa con un’identità certa, per una incerta. L’Europa non consente dispersioni.

Questo maggioritario non dà più il diritto di pensare: pensano in due, Berlusconi e Veltroni. Non è possibile. Noi intendiamo rivalutare e sostenere la politica dei contenuti rispetto a quella di schieramento, per servire, come diceva Spadolini, “interessi indisponibili”, non di parte.

Pertanto io penso che lo schieramento dei Repubblicani oggi è con i Repubblicani, fuori dal Partito Democratico e fuori dal Partito delle Libertà.

Le due sole alternative a questa limitata e imposta scelta dei due grandi contenitori, per noi nel centrosinistra, sono Radicali e IDV, che hanno evidenti differenze programmatiche, mentre nel centrodestra c’è il partito dell’On. Casini o la Lega.

Noi pensiamo, invece, che da subito si debba aprire la riflessione per costruire un rapporto privilegiato con quelle forze che, presenti in Parlamento e negli alti gradi delle istituzioni, possano ancora per apertura politica o per convergenza di antiche tradizioni, costruire una possibilità di percorso comune: un punto di riferimento laico liberaldemocratico, in Italia, non è solo necessario, ma è doveroso.

Abbiamo cercato rapporti di dignità e lealtà con il Partito Democratico, che però, a Roma come in periferia, volutamente, li ha ignorati, tranne qualche rarissima eccezione.

Non può spaventarci oggi tentare un rapporto con altri partiti che, tra l’altro, hanno il non piccolo vantaggio di condividere con noi l’appartenenza all’ELDR, alla cultura laica-riformista.

La solitudine ha un grande fascino, ma la responsabilità della nostra storia, ora più che mai, deve essere al primo posto, perché l’Italia e l’Europa hanno ancora bisogno dei Repubblicani.

lunedì 16 febbraio 2009

3° CONGRESSO NAZIONALE MOVIMENTO REPUBBLICANI EUROPEI
Roma 28febbraio/ 1° marzo
Hotel Massimo D'Azelio v. Cavour 18